Un’invincibile estate
“Ho compreso, infine, che nel bel mezzo dell’inverno vi era in me un’invincibile estate.” (Albert Camus)
Speriamo si metta in testa di aggiustare le spine dorsali rotte, perché rischia di riuscirci.
Giulia sorride sempre, il senso del dovere in un messaggio.
In questa rubrica non ci sono classifiche ma, se dovessimo ipotizzarne una, la medaglia d’oro andrebbe ancora una volta a lei, che ha ben presente la potenza della sua positività per aiutare gli altri. Anche quelli come noi, che si lamentano per le bazzecole.
Classe 1994, promessa nel trampolino elastico, a 16 anni cade e le esplode una vertebra: “Sfiga, solo sfiga”, dice senza dare colpe a nessuno. A quel punto scopre il nuoto e decide – quando decide è senza appello – che sarà il suo sport.
Ma non che andrà in piscina due o tre volte la settimana, come i comuni mortali: punta al top.
Un anno e mezzo (sì, avete letto bene) dopo l’incidente, il primo titolo italiano e, a seguire, la convocazione in Nazionale paralimpica.
Il resto è storia: Olimpiadi, mondiali, record su record, un palmares da brividi (lo trovate qui: www.giuliaghiretti.it), Collare d’oro al merito sportivo, Ufficiale delle Repubblica, Atleta dell’anno a Parma, sua città.
Nel mezzo, anche una laurea in Ingegneria biomedica al Politecnico di Milano (ma non è soddisfatta, perché nella Magistrale è un po’ indietro con gli esami… oddio, viene in mente Toscanini, suo concittadino, mai appagato fino in fondo di come dirigeva un’orchestra).
Sono sempre io si intitola l’autobiografia fresca di stampa (Piemme Edizioni), scritta insieme al giornalista Andrea Del Bue: sempre lei, nonostante gli sgambetti della vita o, ancor peggio, della “gente”, con qualche aneddoto che ti fa vergognare di appartenere alla categoria. Come al rientro a scuola, dopo i primi momenti di entusiasmo e solidarietà, quando sente un genitore lamentarsi: “Pensate solo a favorire la Giulia perché è disabile”. O a Milano, dove la coinquilina e la madre disinfettano con l’alcol dove passa. Da non credere.
Un vecchio detto recita “Atleti si diventa, campioni si nasce”: eri portata per il nuoto o è tutta questione di volontà?
«Tra genetica, testa o carattere qualcosa devi averlo dentro».
La sedia, tu come la chiami?
«Di solito dico proprio la sedia, è più veloce. Alcune volte mi capita carrozzina, però se chiami un ristorante ti chiedono se è quella del bambino e quindi devi specificare sedia a rotelle. Non è mica facile, anche nel libro in certi passaggi abbiamo dovuto pensare ai termini».
Quanto sono importanti i termini?
«Credo che il problema grosso non siano le parole, anche se io per prima a volte mi trovo in imbarazzo quando devo scrivere o parlare, magari sui social, per evitare che arrivino mille contestazioni».
È esagerato il politicamente corretto dilagante?
«Secondo me peggiora tante cose, perché uno magari si fa molte più domande, viene meno la spontaneità nei rapporti. Poi, dipende dalle persone che hai davanti…»
Quanto tempo in più serve nella vita quotidiana?
«Tanto. Per salire in auto devi smontare la sedia, caricarla e a volte ti ritrovi che non passi. Devi stare attento dove parcheggi in modo che il fianco sia libero, magari devi fare due giri per trovare quello giusto. In casa, banalmente, vestirsi, mettersi le scarpe, fare il letto: tutto più lungo».
Cosa non riesci a fare da sola?
«Mah, così su due piedi non saprei… di sicuro prendere le cose in alto, dove non arrivo».
Pesa dover chiedere aiuto?
«A volte si, ma impari perché non puoi fare diversamente. Per esempio, al mare, sulla sabbia, dove sono ancor più limitata, è tutto un “mi porti”, “mi fai”, “mi passi”: mi pesa chiedere, disturbare, però non ho altra scelta».
Cosa ti dà più fastidio nell’atteggiamento degli altri nei tuoi confronti?
«Il pietismo, certi sguardi che dicono poverina è tanto buona. Un abbraccio o è una roba sentita oppure evita! Ma anche, adesso che ho una certa visibilità, quelli che ti mettono troppo sul piedistallo…»
Quanto sei costretta, in Italia, a percepire la disabilità perché mancano determinate infrastrutture?
«I mezzi pubblici li prendo poco, non sempre sono attrezzati o hanno gli accessi che funzionano. Una volta non rientrava la pedana dell’autobus: è dovuto venire mio papà e con un paio di martellate ha sbloccato il meccanismo. Io per carattere sono una che non bada a certe cose, se devo entrare in un bar col gradino chiedo aiuto al barista e supero il problema, ma non sono tutti come me e le barriere sono tante».
Due cose banali che vi semplificherebbero la vita?
«I treni non sono così facili: ogni treno ha due soli posti per disabili, il terzo deve prendere quello dopo. E poi non sempre gli ascensori delle stazioni funzionano. Adesso c’è la App di Trenitalia e puoi mandare direttamente la richiesta, ma loro ti devono richiamare, a volte passano ore… Diciamo che devi pianificare il viaggio almeno il giorno prima: se questa sera volessi andare in treno a Milano (120 chilometri da Parma, ndr) non potrei farlo».
Sali e scendi in autonomia dall’auto: se passa qualcuno e ti offre aiuto ti fa piacere o ti dà fastidio?
«Secondo me è un atto di cortesia, ma dipende dal modo in cui lo si propone: anche qui, senza pietismo».
Torniamo alla vita quotidiana: la sedia, la fisioterapia e tutto il resto, chi li paga?
«Fino a un certo punto la sanità pubblica, ma il grosso lo tiri fuori tu. La mia carrozzina non è quella che ti danno d’ufficio, costa qualche migliaio di euro in più».
Addirittura! Non mi sembra un concentrato di tecnologia…
«È super leggera e maneggevole, ma in effetti sono due tubi piegati e poco altro. Devo caricarla in macchina da sola, devo muovermi tutto il giorno… tu genitore, se appena puoi, non ti sacrifichi? La fisioterapia la faccio privatamente con una persona che mi conosce da anni: avrei diritto a un certo numero di sedute nel pubblico, ma sicuramente sarebbero diverse da quelle che in realtà faccio. Banalmente, devi usare ausili per andare in bagno: ogni pipì costa 3 euro. Io sono fortunata a potermelo permettere, ma è sempre un impegno che chiedo alla mia famiglia. E ai miei due fratelli…»
Oggi Giulia è una persona molto ammirata: chi sono le persone che ammiri tu?
«Sicuramente i miei genitori, ma non solo perché hanno gestito una situazione complicata, ammiro mia mamma che aveva le idee chiare fin da piccola: voleva fare l’insegnante e lo ha fatto. Io sono ancora indecisa sul lavoro: da una parte mi sento fortunata ad avere tante possibilità e poter scegliere, dall’altra ho un po’ l’ansia del ritardo…»
Non sei esattamente una “bambocciona” sfaccendata… Ti viene mai voglia, non tanto di riposarti o di andare in vacanza, ma proprio di annoiarti?
«Nel momento in cui mi annoio mi sembra di perdere una giornata. Un po’ lo desidero, poi, quando capita, mi viene il senso di spreco…»
Dopo il nuoto cosa ci sarà?
«Non lo so ancora. Faccio parte della squadra della Fiamme Oro della Polizia e adesso sono entrata ufficialmente nel Corpo, con un concorso. Per la prima volta gli atleti paralimpici sono stati equiparati a quelli olimpici nei gruppi sportivi. È un nuovo inizio, vedremo che ruolo potremo avere finito di gareggiare: spero di riuscire a mettere a frutto le mie competenze di ingegnere biomedico…»
Nel libro citi alcuni episodi di – per usare un eufemismo – intolleranza dopo l’incidente: che spiegazione ti sei data intimamente, la gente è stronza, egoista, non ci pensa, non si rende conto?
«Credo sia solo ignoranza».
Proviamo a sdrammatizzare: episodi divertenti o gaffe di qualcuno?
«Quando ero all’ospedale di Villanova, dopo l’operazione alla colonna vertebrale, a un certo punto ho notato che un’infermiera, fino a quel momento affettuosa e carina, aveva cominciato a evitarmi. Non capivo il motivo. Tramite la mamma ho scoperto che era mortificata di avermi detto: “Giulia in gamba!”. C’era rimasta malissimo, mentre io non me ne ero manco accorta. Torniamo al discorso dei termini: io dico che vengo qui a piedi, non rullando, perché è un modo di dire, ma c’è gente che si fa un sacco di paranoie».
Non so se hai visto il film Quasi amici…
«Si, uno dei miei preferiti».
Ti è mai capitato di approfittare in modo divertente della sedia, come fanno loro, perché tanto nessuno ti dice nulla?
«Beh, qualche volta sì… (ride) Ma adesso c’è un pizzico di notorietà in più, per cui alcune porte si aprono da sole. Però il fatto di saltare le file, andare in centro in auto o arrivare a pochi metri dall’ingresso funziona sempre con gli amici».
Nel libro parli del desiderio interiore di superare sempre i tuoi limiti: ti sei mai chiesta dal punto di vista psicologico, intimo, da dove viene questa competitività, questa grinta?
«In effetti non lo so, sono fatta così. Con mia sorella da piccole se non vincevo io il gioco si doveva ricominciare. Forse rispondo alla prima domanda su atleti e campioni: non dico che ci devi nascere, però… Io sono competitiva, mio fratello Pietro è competitivo, Anna per niente».
Vita complicata per la sorella…
(Ride) «In realtà siamo molto complici, Anna e Pietro sono i miei riferimenti».
Mi ha meravigliato l’accenno che fai nel libro, molto intimo e personale, alle storie che “sarebbero potute sfociare in qualche cosa di più se tu non fossi su una sedia”: la disabilità in amore spaventa così tanto?
«Sicuramente una carrozzina fa paura. Forse anche il mio ruolo, l’essere atleta e conosciuta complica le cose… Poi ho un carattere deciso: diciamo che se prendi la Giulia prendi un bel pacchetto completo».
Rapido gioco di sguardi con la sua amica Giulia, che si è unita a noi durante l’intervista: scoppiamo tutti e tre a ridere.
...segui Giulia Ghiretti.
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