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“Crimes of the Future” di David Cronenberg

David Cronenberg è un venerato maestro

Da qualunque prospettiva si osservi la sua filmografia non si può non riconoscere un’impronta unica e irripetibile.
È difficile spiegare come un autore come lui abbia estreme difficoltà a ottenere i finanziamenti necessari per i propri film. Anzi no, la spiegazione è semplice: Cronenberg non scende a compromessi. Mai.
Al netto di ciò COTF poteva essere un testamento giocato al ribasso, un film in cui Cronenberg mescolava i temi a lui cari per realizzare un collage della propria poetica. E invece l’asticella è stata alzata per trovare e indagare qualcosa di nuovo e diverso.
Chiunque abbia una certa dimestichezza col cinema del regista canadese sa che tutte le sue pellicole sono connaturate da continui rimandi alla letteratura, la pittura, la scultura. Insomma, all’arte nel senso più generale del termine.
In COTF il paradigma si inverte: non più una base tematica filtrata attraverso l’arte ma l’arte innestata di una sovrastruttura tematica.

Il procedimento non è irrilevante poiché assume contorni politici.

Guardando le vicende di Saul Tenser e della collaboratrice Caprice si trovano facilmente gli stilemi cronenberghiani relativi la Nuova Carne, la mutazione, la reinvenzione della sessualità, la bellezza interiore ma il filtro è nuovo e più inquietante.
Gli esseri umani si sono disumanizzati: non soffrono più, non si ammalano più, non percepiscono più la realtà che li circonda nello stesso modo; sono diventati uno scarto di loro stessi. La plastica diviene dunque elemento cardine nel definire un obiettivo bidirezionale, un ponte tra ciò che gli esseri umani erano e ciò che sono diventati. In un mondo governato dagli scarti, dai rifiuti, l’uomo è rifiuto esso stesso e come tale deve riconoscersi.

L’arte assume una valenza politica poiché si fa fissazione di tale passaggio, di un qui e ora che avvolge tutta l’umanità e la cristallizza in una performance di devastante pessimismo.

Cronenberg concettualizza l’assunto in maniera estrema e si/ci chiede quale sia il fine ultimo dell’arte.

Non viene fornita una risposta precisa, tuttavia si può dare una (possibile) spiegazione partendo dalla chirurgia: se questa branca della medicina è finalizzata alla reinvenzione della sessualità nelle body performance, l’arte va intesa nel suo senso più etimologico, ovvero come qualcosa che si fa, che si produce.
Così facendo l’azione in sé definisce i contorni degli individui che agiscono, li completa, permette loro di raggiungere l’Essere che ne sta alla base e che li rivela a loro stessi, prima che agli altri.
Ma tale operazione non è neutra: Cronenberg osserva con occhio clinico la deriva dell’umanità, non ne ha pietà né la condanna. Semplicemente ne scruta i contorni per dichiarare la necessità di cristallizzare un passaggio a perpetua memoria per le generazioni future.

L’arte è questo: determinare un significato in un contesto per fornire un paradigma per il futuro.

Probabilmente sono questi i “crimini del futuro”: guardarci per quello che siamo diventati senza esserne consapevoli. Nel futuro, nel passato e nel presente.

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Gianpietro Miolato
Formazione letteraria, passione per buon cinema e buona cucina di cui scrive su riviste del settore e su PassioneGourmet, ha trovato nella settima arte la scuola di vita che la vita stessa non gli aveva fornito. Un legame sanguigno, con alti e bassi, spesso cinico, mai enfatico. In una parola: onesto.

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