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Non aprite quella porta (2022): appunto!

Quando avevo 13 anni frequentavo una videoteca del mio paese.
Trascorrevo la maggior parte delle ore pomeridiane immerso tra le cataste di vhs anni ’80 e ’90 dei generi più disparati. Una tendina separava il reparto del porno.
Ero talmente assiduo nel frequentare la videoteca che la commessa mi aveva preso in simpatia e mi considerava di casa. Spesso i film me li prestava gratuitamente, con l’impegno che glieli ritornassi il giorno seguente. Non sgarravo.
Tra le centinaia di pellicole che vidi in quel periodo, le quali sono ancora la base della mia conoscenza cinematografica, ne ricordo una con grande affetto: Non aprite quella porta 2.
La custodia era fenomenale: cinque personaggi, in posa stile The Breakfast Club, con indicato a caratteri cubitali: vietato ai minori di 18 anni. Impossibile non vederlo.
La commessa me lo prestò con l’accortezza che non fossi facilmente impressionabile. Non so bene come la convinsi, fatto sta che, oggi come allora, manifestai la mia bassa predisposizione allo shock visivo.

Non aprite quella porta 2 mi piacque visceralmente.

L’avverbio non è casuale: alla base del film, c’era una quantità di sangue, budella e follia varia che solo anni dopo compresi essere una parodia del prototipo. Al tempo mi accontentai della patina splatter.
La gioia della visione fu tale che decisi di scovare anche il primo capitolo della saga. L’impresa si rivelò complicata. Nessuna videoteca della zona possedeva una copia di Non aprite quella porta. Dopo settimane, a ridosso dell’estate, scovai una videoteca a Bassano del Grappa che teneva un esemplare del film. Mi ci fiondai. Al contrario del sequel, il primo film non mi colpì: meno sangue, meno azione, minor divertimento. Impiegai anni per comprendere la caratura di quel gioiello del 1974.
Da spettatore legato all’horror, ho seguito con alterni entusiasmi la saga di Leatherface. Remake, sequel, sequel dei remake; la formula ha subito varie ristrutturazioni, tutte col medesimo risultato: l’inutilità. Perché, escluso il primo sequel del 1986, gli altri capitoli hanno scimmiottato un canovaccio di per sé non scimmiottabile.
Non aprite quella porta non è uno slasher: ha degli elementi ripresi successivamente negli slasher ma è un grido nichilista e anarchico ben inserito nel contesto in cui è uscito. La sua grandezza consiste nell’aver trovato una formula talmente esasperata da superare i limiti della militanza politica, per piazzarsi in un universo di pura follia fine a se stessa, non replicabile. Tobe Hooper lo aveva capito; non a caso nel sequel del 1986 riprenderà il suo stesso capostipite per riproporlo in chiave grottesca. Impossibile reggere il confronto, meglio gestire la questione da una prospettiva diversa.
Nessuno dei registi venuti dopo di lui lo ha compreso.

Non aprite quella porta 2022 targato Netflix si candida a buon diritto quale peggior horror dell’anno.

Sparare sulla croce rossa ha un senso relativo. I difetti, le incoerenze, le approssimazioni di quest’adattamento a firma di David Blue Garcia sono talmente tante che a tratti mi cadeva la mascella nel vedere, tra i titoli di coda, che la produzione era a opera di Fede Alvarez, uno cha col remake de La Casa ha dimostrato d’avere le potenzialità del fuoriclasse.
Per spiegare il mio disappunto, parto dalla fine. E non intendo “dal finale”, ma dalla fine, dopo i titoli di coda, con la piccola sequenza post-credit.
Nelle ultimissime immagini vediamo Leatherface dirigersi claudicante verso una casa, motosega in mano. Niente di più, niente di meno. Se ne traggono due conclusioni: la casa, non essendo stata mostrata in precedenza, avrà una qualche importanza nella vita del protagonista; si intende realizzare un sequel.
Creare un franchise, sfruttarlo a fini commerciali, è sacrosanto. Dipende da come lo fai.
L’errore di questo film, così come della saga di Halloween targata Gordon Green, è politicizzare in maniera esplicita il format, per poi “brandizzarlo”. Siamo in epoca perbenista post-metoo, e si vede.
Le protagoniste divengono eroine emancipate da una sequenza all’altra, senza alcuna credibilità che non sia l’avere una sceneggiatura che ti obblighi a cambiare registro di punto in bianco. Se non bastasse, riesumare il ruolo di Sally in chiave vigilante ante litteram è ridicolo.
Non tanto per l’età della protagonista, ma per le motivazioni. La vendetta è un motore importante nelle azioni di un personaggio, ma la devi contestualizzare e rendere credibile. Qui non c’è né contesto né credibilità. Le cose accadono solo perché ci si aspetta accadano.
Alla sagra delle ovvietà si aggiungono inutili sottolineature delle diversità etniche dei personaggi, chiamati a ricoprire il ruolo di vittime innocenti, sebbene non simpatiche, a cui tocca un destino atroce.
Parliamo dell’atrocità: il gore è abbondante e la mattanza sull’autobus è divertente. Tuttavia, è sufficiente? No, perché è insensata. Non dico che in un horror si debba vedere della violenza solo quando è funzionale alla storia. Un horror deve puntare allo shock, quindi ben venga una dose massiccia di sangue, anche quando non indispensabile. Però assistere ad ammazzamenti creati con una brutta CGI, no. Occorre toccare lo stomaco delle persone, è necessario colpire forte e con precisione, come il sequel del 1986: puntare sullo schifo più esagerato, e senza timore. Qui la fattura è sregolata.
Perché poi tutto si riduce a una sagra miscellanea di luoghi comuni e scelte narrative ai limiti della parodia involontaria – possibile che nel 2022 nessuno comprenda che in una casa diroccata abitata da vecchiette mezze matte è bene non entrare?
Con l’aggravante degli strascichi proto-progressisti a urlare vendetta per l’approssimazione nel descrivere personaggi ed eventi ai limiti della propaganda perbenista – mancava solo un personaggio gender fluid e poi la sagra degli stereotipi politicamente corretti brutalizzati dal killer redneck era completa.
L’amarezza è tanta, non lo nego. Non per la perdita di tempo occorsa – un’ora e venti non è poi molta cosa – né per l’ennesima occasione sprecata nel rinnovare la saga; ma per l’amara consapevolezza che i tempi della videoteca della mia giovinezza sono oramai finiti da un pezzo, con l’eredità di film onesti e sperduti che si porta con sé.
...segui Gianpietro.

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Gianpietro Miolato
Formazione letteraria, passione per buon cinema e buona cucina di cui scrive su riviste del settore e su PassioneGourmet, ha trovato nella settima arte la scuola di vita che la vita stessa non gli aveva fornito. Un legame sanguigno, con alti e bassi, spesso cinico, mai enfatico. In una parola: onesto.

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