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Mission: Impossible – The Final Reckoning

L’ultimo baluardo del corpo-cinema

TOM CRUISE è l’ultima star in senso classico. Nel bene e nel male. Ed ETHAN HUNT è il suo alterego.
All’ottavo film della saga di Mission: Impossible non c’è un momento che non risulti calibrato.
Dalla prima ora riepilogativa, al finale fracassone nel quale il buon Tom se ne sta appeso a un aereo, ovviamente realizzando lui stesso lo STUNT.

Che gli vuoi dire a Tom Cruise? È fuori dal tempo e dalle mode. In sintesi: è classico.

Vedere questo film è come pasteggiare a una grande tavola di cucina classica nella quale degusti un percorso che propone un menù millimetrico e appagante. Nessuna sorpresa, nessuno scossone. Semplicemente ciò che è noto (o quanto meno: conosciuto e memorizzato nella memoria culinaria successiva a quando i primi piatti sono stati presentati) proposto nella sua veste più riuscita e universale.
La vera “magia”, per dir così, è l’equilibrio: si passa da momenti molto dialogati ad altri molto concitati senza perdere ritmo, gestendo alla perfezione la soglia d’attenzione dello spettatore.
Si parte da un riepilogo a tratti commovente di tutte le missioni di Hunt, per poi passare a una sequenza subacquea degna di JAMES CAMERON, per finire, dopo uno scontro aereo nel quale i protagonisti sono gli esseri umani non gli aerei, con una morale dagli echi messianici tanto anacronistica quanto sincera.
Che vuoi chiedere di più a un film così?
Si respira la voglia di creare qualcosa di epocale perché specchio di un cinema d’azione che non si fa più, qualcosa che solo in pochi casi autoriali (Nolan?) ha ancora ragione d’essere fatto con minima CGI e tanta manodopera, quando 30 anni fa era la norma.

Tom Cruise celebra se stesso e il suo cinema senza narcisismo ma costruendo una specie di pietra tombale a ciò che il suo cinema è stato e ha rappresentato attraverso uno spettacolo imponente e irripetibile.

Non è il miglior capitolo della saga (la trama è un canovaccio fantascientifico rimasticato da cento altri film, Terminator in primis) ma è un film “grande”, a cominciare dalla durata, mai pesante.
Parliamo di un film che ha poca azione ma che è costruito con un’intelaiatura della medesima talmente esagerata da mettere in allarme le società assicurative che si occupano di sborsare quattrini per assicurare un attore come Cruise.
In questo senso, quindi, l’azione acquista un altro valore perché non è più semplice intrattenimento (comunque ottimo) ma diventa metafora di ciò che significa per Tom Cruise fare cinema dopo oltre 40 anni di carriera – con molti alti e film divenuti epocali e pochissimi scivoloni.
Quando vedi Cruise appeso a un aereo in volo a 62 anni suonati (ma arrivarci a quell’età come ci è arrivato lui) capisci che stai ammirando un artista che sta facendo di tutto per salvare un ideale di cinema che pesca a piene mani dai kolossal che lo hanno formato e che qui lui stesso vuole celebrare.

Una sorta di ringraziamento e difesa di un cinema fisico perché, di per sé, il cinema è fatto da persone e non da AI.

Come si può non apprezzare uno sforzo del genere?
Tom Cruise non è una persona che si è particolarmente preoccupata della propria immagine pubblica. Anzi, spesso ha perseguito i suoi ideali con proselitismi che potevano nuocere alla sua carriera, soprattutto in un’epoca oscurantista di forzato politicamente corretto a tutti i costi nella quella viviamo ora. Ma alla fine il mercato si autoregola.
Tom Cruise persona è una cosa; Tom Cruise attore è un’altra. E quando l’attore si mette in moto, non ce n’è per nessuno.
Perché in tutte le sue produzioni Cruise esige il massimo della professionalità e della dedizione (vedi la sfuriata virale di qualche anno fa contro un collaboratore che non applicava correttamente i protocolli di sicurezza contro la pandemia sul set delle riprese di Mission: Impossible 7) e quando lavori in questo modo, dovendo gestire budget da centinai di milioni di dollari con tutto l’indotto correlato, non puoi permetterti di fallire. E Cruise non fallisce grazie alla chiarezza dell’obiettivo finale che connatura la sua professione: fare un buon film, qualcosa che emozioni le persone senza usare trucchetti ricattatori o scorciatoie.
Alla fine se Tom Cruise esiste come star è perché uno spettatore paga il biglietto per vedere i suoi film. Il mercato si autoregola.
Vale la pena di vedere The Final Reckoning al cinema?
Sì, perché tanto tu spettatore compi lo sforzo di andare al cinema, quanto il buon Tom è rimasto appeso a centinaia di metri di altezza per regalarti la magia di quella stessa sala.
...segui Gianpietro.

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Gianpietro Miolato
Formazione letteraria, passione per buon cinema e buona cucina di cui scrive su riviste del settore e su PassioneGourmet, ha trovato nella settima arte la scuola di vita che la vita stessa non gli aveva fornito. Un legame sanguigno, con alti e bassi, spesso cinico, mai enfatico. In una parola: onesto.

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