Here: per una ridefinizione dell’unità di tempo e luogo
È bello vedere un film di un regista che non si accontenta.
Ha un senso profondo Here, un senso che va al di là della sua composizione tecnica e che riguarda il significato più stratificato dell’usare un mezzo artistico per sperimentare e portare avanti un discorso sul valore del “vedere” un’opera d’arte che obblighi a fare un ragionamento.
Robert Zemeckis avrebbe potuto giocare di rimessa, avrebbe potuto adagiarsi e dirigere un film senza pretese solo per incassare, invece si mette in gioco, riunisce la squadra di Forrest Gump (che aveva consacrato Zemeckis con l’Oscar alla Miglior Regia) per mettere in scena un film completamente agli antipodi della pellicola del 1994.
Non ho letto il fumetto di partenza da cui è tratto Here e manco mi interessa farlo. L’ho detto in altre occasioni e lo ribadisco ora: paragonare un film a un altro media da cui è ispirato serve solo a trovare le differenze. La qualità di uno specifico prodotto la si giudica restando nello stesso campo semantico, non mettendo insieme mele e pere solo perché sono entrambi dei frutti. Non ha senso.
Here è un film apparentemente semplice ma profondo e complicato.
L’aspetto più straniante non è l’inquadratura fissa, che fissa non lo è mica tanto poiché il montaggio interno è mobilissimo ed elegante nel passare da un riquadro all’altro; Here prende in contropiede per il contenuto della messa in scena.
Coprendo un arco temporale che parte dalla preistoria e arriva ai giorni d’oggi, Zemeckis ragiona in termini universali sulle relazioni umane, sulle linee che le legano, su un’umanità singola che si fa specchio dell’universo-mondo tutto, e lo fa mettendo in scena vicende i cui esiti non vanno quasi mai nella direzione che ti aspetti.
Prendiamo il finale: dolente, commovente, delicato, il riavvicinamento tra Richard e Margaret è diretto con una sobrietà sorprendente. Non siamo nei territori delle urla di mucciniana memoria. Zemeckis mostra una separazione dopo decenni di matrimonio, dunque un dramma sradicante, con sobrietà e speranza, lasciando fuori dallo schermo la rabbia, le urla, i risentimenti e puntando sul bisogno di riappacificazione che diventa manifesto di una solidarietà tra esseri umani che avrebbe commosso Leopardi.
Il tempo scorre, la morte va e viene, e i personaggi ne sono assorbiti, vivono la loro vita schiacciati dal peso dello scorrere del tempo stesso, un po’ ne sono consapevoli, un po’ vivono e basta, e alla fine sono chiamati a confrontarsi con l’esaurimento dell’unico bene che hanno avuto a loro disposizione: la vita, appunto.
Partendo da questo, Zemeckis, che di anni ne ha 72, elogia la vita ma lo fa senza enfasi e utilizzando un protagonista che incarna gli aspetti più quotidiani e, per certi aspetti, banali di gran parte dell’umanità: un uomo medio (interpretato con grande misura da Tom Hanks), mite di carattere, schiacciato dalle responsabilità sociali ma non abbattuto dalle medesime, una persona che potrebbe essere il tuo vicino di casa, o che potresti essere tu stesso, con speranze e velleità artistiche scalpitanti ma lucido nel comprendere che beni e servizi si pagano coi soldi di un lavoro spesso lontanissimo dai tuoi sogni.
Richard incarna l’umanità pratica, quella che si sveglia ogni mattina per svolgere il proprio lavoro adempiendo agli obblighi fattuali che ogni convivenza nella società civile prevede, andando incontro al rischio di risultare noioso e prevedibile ma non per questo riducendosi a un automa. Margaret è il suo opposto, ma non in maniera manichea: la decisione di separarsi da Richard è sofferta ma non tragica, giocata su un costante dialogo che comunque salvaguarda la famiglia costruita volontariamente con l’uomo che, nel bene o nel male, ha rappresentato parte della sua vita. L’insoddisfazione che muove la donna, anticipata col desiderio di cambiare casa prima ed esplosa col raggiungimento dei 50 anni poi, non suona mai gratuita né viziata. È solo la controparte della prevedibilità dell’uomo, è il desiderio, cioè, di soddisfare quel “diritto alla felicità” che ogni essere umano ha, persino Richard con la pittura, e che si manifesta in maniera più esplicita.
Nel mettere in scena questo dramma imploso, Zemeckis gioca con intelligenza le sue carte ritagliandosi una sequenza squisita nella quale prende in giro gli pseudo esperti della vita quali i life coach moderni, abili a esprimere giudizi sugli altri ma incompetenti nel presentare loro stessi, in quanto la vita, nella sua apparente semplicità, è materia stratificata e unica per ogni essere umano.
Così facendo la fissità dell’inquadratura acuisce la complessità della storia, obbliga lo spettatore a fermarsi, a ragionare, ad accettare un’impostazione formale difficile e non accomodante, con salti narrativi che richiedono tempo per costruire una rete di significati che gioca sulle analogie, non sulle spiegazioni.
Quindi l’apparato tecnico diventa fondamentale in ogni sua sfaccettatura, a cominciare dalla colonna sonora (splendida), la quale è utile a veicolare chiavi interpretative non scontate nei momenti in cui è usata.
E l’ultima sequenza, con la macchina da presa che per la prima volta si muove, ruota di 180° e poi effettua uno zoom fino a chiudere la casa dall’esterno in un campo lunghissimo, immergendo la dimora in mezzo a un contesto urbano anonimo, quando invece prima ne aveva mostrato l’intimità della diegesi, universalizza il discorso particolare senza scivolare in banalità di sorta, inserendo la famiglia Young in un contesto più ampio, dove tutti viviamo, perché alla fine la vita la devi vivere, non spiegare.
In sintesi: la semplicità della complessità che solo un grande regista come Zemeckis poteva gestire con perizia come fatto in Here.
Chapeau.
...segui Gianpietro.
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