La sirena del manierismo
Il problema di essere un “venerato maestro” è che ti è concesso il lusso di fare quello che ti pare.
La libertà è cosa seria e va gestita come tale. Se ne abusi, diventa qualcos’altro: diviene autoreferenzialità, non comunicazione.
Paolo Sorrentino è caduto in questo tranello.
Confondendo il suo status autoriale con l’essere lasciato a briglia sciolta e fare ciò che vuole, confeziona un film che non è un film ma un insieme di scene scollegate tra loro che altro non fanno che confermare lo sbaglio alla base di questo film.
L’intento è chiaro: narrare la biografia sognante (trasognata?) di una giovane alle prese con la vita, nel senso più ampio e vago del termine.
Sorrentino se la sente caldissima, è convinto di poter realizzare un film dagli echi felliniani nel quale il suo timbro, il suo uso della macchina da presa, la sua attenzione al meraviglioso e all’onirico, spesso al surreale, bastino a camuffare una cosa che film non è.
Al contrario di quel piccolo gioiello de È stata la mano di Dio (2021) qui Sorrentino sbaglia il tono, giustappone una quantità esagerata di scene, personaggi, minutaggio, situazioni (non sequenze) che sono intercambiabili e, dunque, sconnesse. Tanto è vedere l’adolescenza della protagonista, quanto la giovinezza, quanto la vecchiaia e il risultato non cambia: non c’è un nesso narrativo tra un’immagine e l’altra.
La poesia in prosa è un genere preciso, nel cinema Terrence Malick ne è esponente autorevole. Ma è materia delicatissima e fragilissima, se la maneggi con disinvoltura il gioco mostra presto la corda e si riduce a un semplice esercizio di stile, qualcosa che serve a dimostrare quanto sei bravo nel costruire un’immagine peccando però nel creare una storia.
È raro che Sorrentino cada in questo cortocircuito, forse solo in Youth – La giovinezza (2015) si è visto un’accozzaglia sconclusionata di immagini come quella di Parthenope; resta che quello di quest’anno è un prodotto che non accontenta nessuno.
Non accontenta i fan di Sorrentino, perché non spinge su nessuno degli aspetti che hanno fatto grande il cinema sorrentiniano, né accontenta lo spettatore giustamente incantato da Il Divo (2008) o Le conseguenze dell’amore (2004), il quale aveva trovato un impianto visivo innovativo nel panorama italiano dei primi anni 2000.
L’intento sarebbe dipingere un affresco onirico, il cui perno attorno al quale far ruotare lo sviluppo diegetico è la protagonista. Ma a conti fatti a cosa assistiamo?
Scene più o meno interessanti di una realtà priva di senso, gente sentenziosa che si manifesta con battute pronte e ragiona in termini assoluti sul nulla dell’esistenza, senza una ragione che non sia appiccicare immagini enfatiche e ricattatorie con attori più o meno blasonati buttati allo sbaraglio.
Prendiamo Gary Oldman: è incredibile come il suo personaggio altro non sia che una figura, un carattere, una maschera stereotipata che entra ed esce dal film senza alcuna ragione o soluzioni di continuità. È triste vederlo recitare battute che non creano mai un dialogo ma solo linee dialogiche da post su Facebook da boomer irrisolto, con la voce tronfia e masticata a esprimere esattamente cosa? Il senso di schifo del mondo? La difficoltà di pacificazione dell’artista sensibile ed emarginato? A confronto in Mank (2020) di Fincher, Oldman sembrava Otello.
E così vale anche per tutti gli altri comprimari.
Parthenope guarda le persone che le gravitano attorno, ne ascolta gli sproloqui, risponde con altri sproloqui, giustifica i propri sproloqui facendosi dire che parla per sproloqui (battute pronte, letteralmente), e alla fine cosa resta?
Un uso della macchina da presa competente ma un nulla contenutistico allarmante.
E sorge forte il sospetto che la coproduzione alla base del film abbia spinto Sorrentino a unire cose slegate, attori slegati, dialoghi slegati, senza che nessuno vigilasse a cosa si stava realizzando.
I personaggi (?) entrano ed escono dicendo, più che facendo, tutto e il contrario di tutto: tanto è abortire clandestinamente, quanto assistere a un amplesso grottesco su una specie di set teatrale, passando per la seduzione di un vescovo, il suicidio di un fratello, il disinteresse affettivo dei genitori, un ragazzo malato “fatto di acqua e sale” (.sic!), una carriera universitaria e via così.
Cui prodest?
A parte Sorrentino stesso e il suo ego, non lo so.
Se vi basta, è il film per voi.
...segui Gianpietro.
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